Friday 16 September 2011

Gilad Atzmon: messaggio di pace e uguaglianza

Quando ero un giovane israeliano credevo nell'ethos sionista, mi consideravo una parte integrante del moderno progetto del revival ebraico. Vedevo me come parte della storia ebraica, e la storia ebraica come un'estensione di me. Da giovane israeliano, cresciuto all'indomani della Guerra dei Sei Giorni del 1967, vedevo me stesso e la gente attorno a me come una coscienza collettiva in evoluzione, impegnata a combattere una battaglia rivoluzionaria all'insegna della giustizia storica.
Mi ci volle un po' per rendermi conto che il mio progetto di revival storico era in realtà una catena di punti oscuri. Mi ci vollero diversi anni per capire di essere io stesso un punto oscuro. Ricordo, alle scuole superiori, la mia visita al Yad Vashem, il museo israeliano dedicato all'Olocausto che si trova vicino a Deir Yassin, un villaggio palestinese i cui abitanti furono sterminati nel 1948. Avevo quattordici anni all'epoca. Domandai all'emotiva guida turistica se fosse in grado di spiegarmi il fatto che così numerosi europei odiassero gli ebrei così tanto, e in così tanti posti diversi contemporaneamente. Fui sospeso da scuola per una settimana. Eppure, a quanto pare, non imparai la giusta lezione perché, quando ci ntrovammo a studiare le accuse del sangue medievali, ancora una volta mi domandai ad alta voce come l'insegnante potesse mai essere certo che queste accuse, secondo le quali gli ebrei trasformavano il sangue di giovani goyim in matza, fossero effettivamente vuote e senza fondamento. Nuovamente fui mandato a casa per una settimana. Durante la mia adolescenza passai la maggior parte delle mie mattinate a casa piuttosto che in classe.
Per quanto fossi un giovane scettico, ero anche orripilato dall'Olocausto. Negli anni '70, i sopravvissuti dell'Olocausto facevano parte del mio panorama sociale. C'erano i nostri vicini – li incontravamo in serate tra famiglie, in classe, in politica, nei negozi dietro l'angolo. Erano parte della nostra vita. I numeri scuri, tatuati sulle loro braccia non sbiadivano mai. Ciò ha sempre avuto un effetto agghiacciante. Tuttavia devo far presente che non ricordo un solo sopravvissuto dell'Olocausto che abbia mai tentato di manipolare le mie emozioni. Recentemente ho parlato con un amico scozzese che era partito volontario per andare a lavorare in un kibbutz negli anni '70. Quel kibbutz era noto per la sua alta concentrazione di sopravvissuti dell'Olocausto. Il mio amico scozzese mi ha reso noto di quanto gli fosse piaciuta quell'esperienza, passata a lavorare e confrontarsi con quei sopravvissuti. Erano per la maggior parte molto silenziosi ed educati, non usavano mai il loro passato per farsi belli. Quelli che non riusciva proprio a sopportare erano i giovani israeliani. La mia esperienza era molto simile: per ciò che posso testimoniare io, sono sempre stati i sedicenti figli, figlie e nipoti i sopravvissuti a strumentalizzare l'Olocausto come argomento politico, o per esigere qualche forma di favoritismo.
Ha ragione lo storico americano Norman Finkelstein a dichiarare che Israele ha trasformato l'Olocausto in uno strumento politico nel 1967, quando aveva bisogno di un pretesto 'etico' in quanto occupante non etico. Devo ammettere che, persino quando ero un giovane nazionalista, mi sono sempre sentito a disagio con l'Olocausto. All'epoca pensavo che gli ebrei non dovessero vantarsi così tanto di essere detestati.
Fu proprio l'interiorizzazione del significato dell'Olocausto a trasformamri in un forte oppositore di Israele e dell'ebraicità. Fu l'Olocausto che alla fine mi rese un devoto sostenitore dei diritti dei palestinesi, della loro resistenza e del loro diritto al ritorno. Nel 1984, da soldato, durante una breve visita al campo di concentramente di Anzar, in Libano, mi resi conto di essere dal lato sbagliato.
Mi è stato anche fatto notare che il mio atteggiamento critico nei confronti del sionismo può persino essere visto come un grande successo del sionismo stesso, che prometteva di creare un dibattito 'libero', aperto, razionale e liberale. Anzi, da buon israeliano, non mi trattengo, né ho peli sulla lingua. Come se ciò non bastasse, non è certo un segreto che ho tutta l'aria – e l'accento – di un israeliano. Può anche darsi che queste siano qualità necessarie per poter capire la mentalità, la politica, l'identità e la cultura israeliane. Fra le più prolifiche voci critiche di Israele e dell'ebraicità troverete israeliani ed ex-israeliani come Israel Shahak, Israel Shamir, Gideon Levi, Shimon Tzabar, Shlomo Sand, Avrum Burg, Amira Hess, Uri Avneri, Tali Fachima, Mordechai Vanunu, Nurit Peled e altri ancora. Immagino che ci debba pur essere qualche cosa di positivo nel patrimonio sionista, se è riuscito a produrre tali e tante voci critiche. I media israeliani cercano costantemente di trascinarmi in un dibattito. Sembrerebbe dunque che esista un elemento di apertura all'interno della realtà sionista.
Da giovane ebreo israeliano laico, credevo entusiasticamente nella possibilità di trasformare il carattere ebraico in un 'collettivo civilizzato e autenticamente umanista'. Credevo di farne parte io stesso. E poi capii, attraverso un lungo e doloroso processo, che Israele non avrebbe mai prodotto 'l'ebreo umanista'. Era troppo impelagato in un colossale peccato ed era troppo arrogante per salvarsi dalle proprie circostanze, irrimediabilmente condannate. Mi resi conto che, se ero realmente entusiasta nei confronti dello stile di vita dei goyim, mi sarebbe semplicemente convenuto lasciarmi Israele alle spalle, vivere in mezzo ai goyim e cercare persino di diventarlo io stesso. E così feci. Finora non mi sono mai voltato indietro con rimpianto. Sono perfino fiero di quelle contraddizioni che sono riuscito a conservare.
Suppongo che terminare questo libro senza un tentativo di riappacificazione o riconciliazione sarebbe un'opportunità mancata: inutile dire che non mi aspetto da un momento all'altro una soluzione da queste 'negoziazioni di pace'.
Immaginate che un membro del parlamento israeliano si svegli una mattina con un'insolita determinazione a realizzare la pace autentica. Nelle ore piccole del mattino, la saggezza si deposa su questa persona. Si rende conto che Israele è in realtà la Palestina: si è esteso sopra alla Palestina storica ai danni dei palestinesi, le loro fonti di sustentamento e la loro storia. Capisce che i palestinesi sono i nativi di quella terra e che i razzi che sparano ogni tanto non sono altro che lettere d'amore indirizzate ai villaggi, agli aranceti, alle vigne e alle terre che gli sono state rubate. Il nostro immaginario parlamentare israeliano si rende conto che il cosiddetto conflitto israelo-palestinese può risolversi in 25 minuti, una volta che entrambi i popoli abbiano deciso di vivere insieme. In linea con la tradizione israeliana dell'unilateralità, viene immediatamente convocata una conferenza stampa lo stesso giorno alle 14:00. Sotto l'influenza di questo nuovo senso di giustizia, il/la parlamentare annuncia al mondo e alla sua gente che 'Israele comprende le sue uniche circostanze e la sua responsabilità per la pace nel mondo. Israele richiama i palestinesi, affinché possano ritornare nelle loro case. Lo stato ebraico diventerà lo stato dei suoi cittadini, dove tutte le persone godranno degli stessi diritti'.
Sebbene scioccati dall'improvvisa mossa di Israele, gli analisti politici attorno capiscono ben presto che, considerando che Israele rappresenta le comunità ebraiche nel mondo, una semplice iniziativa pacifica di tale portata non si limiterà a risolvere il conflitto in Medio Oriente, ma metterà anche fine e due millenni di reciproco sospetto e risentimento fra cristiani ed ebrei. Alcuni accademici, ideologi e politici israeliani di destra si uniscono alla rivoluzionaria iniziativa e dichiarano che un simile, eroico atto unilaterale da parte di Israele potrebbe diventare la sola e unica realizzazione del sogno sionista, poiché non solo gli ebrei sono ritornati a quella che che affermano essere la loro terra storica, ma sono anche riusciti, finalmente, ad amare i loro vicini ed esserne in cambio amati.
Per quanto emozionante sia quest'idea, non dovremmo apsettarci che una cosa del genere succeda di qui a poco, perché Israele è lo stato ebraico, e l'ebraicità è un'ideologia etno-centrica, motivata da esclusivismo, eccezionalismo, supremazia razziale e un'insita e profonda tendenza alla segregazione.
Perché Israele e gli israeliani diventino come tutti gli altri, devono prima essere eliminate tutte le tracce d'ideologia sulla superiorità razziale ebraica. Perché lo stato ebraico si metta a guidare l'iniziativa di pace, deve prima essere de-sionizzato – dovrebbe per prima cosa cessare di essere lo stato ebraico. Similmente, anche il nostro immaginario parlamentare israeliano deve essere de-sionizzato perché possa muovere i passi verso la pace.
Come stanno adesso le cose, lo stato ebraico è categoricamente incapace di guidare la regione verso la riconciliazione. Gli mancano gli ingredienti necessari per pensare in termini di armonia e riconciliazione. Le uniche persone in frado di portare la pace sono i palestinesi, perché la Palestina, contro ogni aspettativa, e nonostante interminabile sofferenza, umiliazioni e oppressione, è ancora una società etica ed ecumenica.
Per quanto riguarda gli ebrei, alcune domande rimangono. Può il discorso sull'identità ebraica liberarsi di questa auto-imposta tirannide ideologica e spirituale? Può la politica ebraica allontanarsi dalle logiche di supremazia? Possono ancora salvarsi gli ebrei? La mia risposta è semplice: perché l'ideologia ebraica si universalizzi, e perché gli ebrei si evolvano e si emancipino, deve avvenire un viogoroso e onesto processo di auto-riflessione. Che gli ebrei possano o meno buttarsi in una simile impresa critica resta ancora una domanda aperta. Non conosco la risposta, immagino che alcuni possano, altri no. Vorrei sperare, però, che questo libro fornisca un buon primo passo.

Tratto dal libro Il 'Chi?' Errante, settembre 2011, Zero Books, Londra.

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